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Marketing 26 Lug 2022
Laura Iandoli

Il bianco e il nero nell’arcobaleno del Rainbow Washing

Da poche settimane si è concluso il mese del Pride, occasione in cui il mondo aziendale è esploso in un carnevale colorato di pubblicità pro-LGBTQIA+, campagne di advertising e rebranding, per ostentare il proprio supporto alla comunità. Questo fenomeno, più comunemente chiamato Rainbow Washing, viene definito dallo Urban Dictionary come “L'atto di utilizzare o aggiungere colori arcobaleno in pubblicità, abbigliamento, accessori, punti di riferimento, e molto altro, al fine di indicare il sostegno progressivo per l'uguaglianza LGBTQIA+ e guadagnare la credibilità del consumatore, ma con un minimo di sforzo o risultato pragmatico”. 

Il mese del Pride è da molti anni scenario di una lotta costante per i diritti civili, una protesta per sensibilizzare e far conoscere alla società una realtà che esiste e ha la necessità di ottenere equi diritti. 

Tuttavia, nel corso dell'ultimo decennio, è diventata una mera circostanza in cui le aziende sono state chiamate a colorarsi di arcobaleno senza un vero attivismo o un vero e proprio sostegno, semplicemente per ottenere maggiori profitti. Un esempio eclatante fu il rebranding di Mark & Spencer, in occasione del Pride del 2019. Per l’occasione era stato messo in vendita il tramezzino arcobaleno, noto anche come LGBT, farcito con lattuga, salsa guacamole, bacon e pomodoro, che in inglese sono Lettuce, Guacamole, Bacon and Tomato (LGBT, appunto).  

Le aziende riconoscono che i clienti, soprattutto quelli che appartengono alle nuove generazioni e alla comunità LGBTQIA+ stessa, danno molta importanza al profilo etico, culturale e ambientale dei marchi da cui acquistano. Le decisioni vengono basate non solo sul prodotto offerto ma anche sui valori che il brand rappresenta.

 Nel 2017 MarketingMag ha dichiarato che "Quasi il 70% degli omosessuali ammette di essere positivamente influenzato da annunci che contengono immagini gay e lesbiche ..." Da questo si deduce che, affinché le aziende possano ottenere profitti, devono sembrare solidali con la comunità. 

Tutto ciò è sbagliato sotto numerosi punti di vista:

  1. Agendo in questo modo, le aziende che davvero sostengono la lotta per i diritti civili per la comunità LGBTQIA+ vengono messe in ombra. I clienti tenderanno a non fidarsi più e a essere scettici nell’acquistare da brand che sono effettivamente dediti alla causa. In questi casi è importante non fare di tutta l’erba un fascio e diventare consumatori consapevoli. Nel momento in cui sono trasparenti sulla loro politica (e si mantengono coerenti tutto l'anno), sollevano e sostengono le voci queer (e li pagano per il loro lavoro) e se si muovono a sfavore della legislazione anti-LGBTQIA+, allora puoi affidarti a questi brand;
  1. Al contrario, molte aziende nascondono i loro veri fini dietro la bandiera arcobaleno. Le campagne per il Pride diventano inappropriate nel momento in cui non sono seguite da un vero sostegno, ad esempio finanziario, alla comunità LGBTQIA+ e alle organizzazioni attiviste. Diventano ancora più fuori luogo quando le stesse aziende discriminano i membri di questa comunità nei loro processi di reclutamento e, ancor peggio, quando sposano politici omofobi, transfobici o queerfobici e forniscono loro finanziamenti.

In America, “Popular Information”, una newsletter indipendente dedicata al giornalismo responsabile, ha esaminato 25 società (tra cui Comcast, AT&T e Walmart) che hanno cambiato i loro profili pubblici per includere la bandiera del Pride. In seguito a questa ricerca è stato scoperto che quelle stesse 25 corporazioni negli ultimi due anni avevano dato più di 10 milioni di dollari a politici coinvolti nella creazione o nel voto per la legislazione a discapito della comunità LGBTQ+;

  1. Un altro problema che sorge con il Rainbow Washing è la mercificazione e monetizzazione della bandiera Pride, che fa perdere di credibilità al Pride come evento in sé. Nella mente di alcune persone, questa ricorrenza  è diventata più una questione di offerte di mercato, sponsorizzazioni e apparizioni di celebrità, sottraendo tempo e attenzione al vero obiettivo: amplificare le voci queer e sensibilizzare per i problemi LGBTQIA+. 

Come già anticipato, questo non vuol dire che non ci siano benefici nella rappresentazione arcobaleno da parte dei brand. Per esempio, a un giovane ragazzo queer che vive nella paura di non essere accettato dai genitori o che si ritrova in uno stato che sta attivamente cercando di togliergli i diritti, potrebbe perdere le speranze e sentirsi invisibile. Invece, grazie alle aziende che davvero si dedicano ad attività pro-LGBTQIA+, tutti possono sentirsi rappresentati e sostenuti nella loro unicità. 

Anche se il Rainbow Washing  è quasi del tutto performativo, una comunità che ha sempre vissuto nell’ombra si può sentire reale, parte di qualcosa che effettivamente esiste e ha una voce. In questo modo, un gesto che appare vuoto non è stato del tutto inutile. In un mondo in cui gli episodi omobitransfobici sono numerosi e spesso non vengono presi sul serio dalle istituzioni, vedere i brand prendere una posizione a riguardo ed esprimere il loro sostegno apertamente dimostra che il cambiamento è in atto. È il simbolo del progresso, di un movimento verso una rivoluzione necessaria, rimandata già da troppo tempo. 

Un esempio di campagna autentica e simbolo del cambiamento è #proudinmycalvins di Calvin Klein, che coinvolge numerosi esponenti della vetrina LGBTQIA+ come il poeta e attivista Kai Isaiah Jamal e l'attore della serie tv “Élite” Omar Ayuso. Inoltre, la collezione invita all’ascolto e all’empatia, esaltando il concetto di famiglia, non quella biologica ma quella che scegli tu, che ti ama e ti accetta per quello che sei. Ancora, il brand da ormai tre anni collabora con il progetto Trevor, l’organizzazione più grande al mondo per la prevenzione dei suicidi tra i giovani della comunità LGBTQIA+.

In conclusione, il Rainbow Washing non può essere considerato come un fenomeno totalmente negativo, ma sicuramente va fatta chiarezza. Ciò che è sbagliato risiede nell’opportunismo e nei gesti effimeri privi di sostanza di quelle aziende che sfruttano i colori dell’arcobaleno per coprire la loro ipocrisia, la commercializzazione non è supporto. Di conseguenza, bisogna dare una spinta per fare di più, portare i brand a informarsi, ad essere più trasparenti e a dedicarsi alla causa tutto l’anno,per dimostrare una genuina vicinanza alla comunità LGBTQIA+ .  

Il cambiamento è possibile solo se il “pride” marketing viene usato nel modo giusto e con un vero obiettivo. Ognuno può dare il suo contributo diventando un consumatore consapevole e informato, sostenendo piccole imprese di proprietà queer o donando alle organizzazioni attiviste.

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