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Cool Stuff 10 Nov 2023
Francesco Grazioso

E se fosse tutto un Truman Show?

C’è un periodo abbastanza preciso che ha segnato un cambiamento radicale nella mia percezione della realtà. Purtroppo non ricordo quale sia il giorno, ma posso constatare con grande tranquillità potesse essere poco dopo il 10 settembre 1998. Perché tanta sicurezza? Perché sì. E non tanto grazie ad un evento particolare capitato al piccolo me ma, invece, perché in quella data nelle principali sale italiane uscì un film capace di segnare la coscienza di più di una generazione: “The Truman Show”, diretto da Peter Weir con Jim Carrey come protagonista.

La trama è conosciutissima: Truman Burbank viene scelto ancora nel grembo materno per partecipare ad uno sperimentale show televisivo, all’epoca lontano da ogni immaginazione. Un reality show in cui il pubblico avrebbe potuto seguire l’intera vita di un essere umano dalla nascita all’età adulta, passando per adolescenza e così via, con una fastidiosissima particolarità: il tutto all’insaputa del protagonista che vivrà una vita percepita come genuina ma in realtà completamente scripted da regista e autori con l’aiuto di comparse distribuite negli angoli di un mini mondo costruito ad hoc.

In poche parole, come recita la tagline all’uscita del film, Truman è «In onda. Senza saperlo.»

L’effetto è straniante e non può lasciare indifferenti in un mondo che ancora non sa che il “Grande Fratello” sarebbe diventato un programma televisivo seguito, consacrando il reality come il genere più seguito dal pubblico. È straniante per uno spettatore adulto, immerso in una distopia ma protetto dallo schermo cinematografico e lo è per uno sguardo bambino, come poteva essere il mio, a sette (invidiabili) anni, molto più vulnerabile.

Da quel momento nulla fu più come prima. Oltre ad empatizzare dannatamente con il protagonista in ogni scena del film, dalla prima visione fino alle successive, con un serie di traumi inaffrontabili (per citarne alcuni: l’impossibilità di lasciare la città a causa di naufragi e guasti tecnici, nuvole fantozziane che “fanno piovere” su una singola testa o persone che credevi morte che riappaiono improvvisamente), ho iniziato a vivere costantemente all’erta non tanto con la sensazione o l’eventualità ma la inconfutabile CERTEZZA che anche io stessi vivendo la stessa cosa.

La certezza di essere circondato da farabutti che mi stavano ingannando. Ogni amico o parente era al 100% un attore che camuffava un sentimento che credevo puro sotto una maschera ignobile, impossibile da sopportare se non giustificata da un impacco di bigliettoni fumanti avvolti intorno al collo per non avere ripercussioni morali.

C’erano di mezzo tutti: insegnanti, persone della tv, amici, compagni di calcio e, peggio di tutti, i miei genitori.

Ovviamente, grazie al cielo, ero e sono ancora dotato di una lucidità che mi ha fatto al fin capire che non valeva la pena andare in cortocircuito totale, tranquillizzandomi e riportandomi sulla (zigzagante) retta via che mi ha condotto fino all’età adulta, lontano da ogni complottismo (se non quello secondo il quale Shakespeare era italiano, quello è vero).

Ma il piccolo me non poteva sapere. Non poteva capire. Non poteva elaborare quanto fosse distante la vita vera da quella cinematografica. Ovvero? Pochissimo. Quasi nulla. Poco più di dieci anni per entrare consapevolmente in un Truman Show globale, fatto di copioni, videocamere, maschere da mostrare e indossate per apparire o nascondersi. 

Un gigantesco show in cui ci crediamo protagonisti quando invece i titoli di coda non ci nominano nemmeno. Tanti piccoli Truman ma senza volontà di scappare. Lui almeno le battute cercava di costruirsele, noi le leggiamo senza rendercene conto. 

Ma soprattutto noi lo sappiamo, abbiamo offerto agli spettatori la nostra consapevolezza facendola passare per scelta lucida, mentendo a noi stessi. È diventato tutto un gigantesco Truman Show, con comparse che ci spingono negli angoli giusti, a favore di telecamera affinché le pubblicità siano inquadrate nel modo migliore possibile. 

Per noi, però, non c’è parete che tenga. Non c’è nessuna piccola porta nascosta in mezzo al blu del cielo per riuscire a scappare, perché almeno per ora è tutta una nostra bizzarra scelta. Distopia resa realtà e felici che sia così, perché noi sì che siamo «In onda. Sapendolo.».

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