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Cool Stuff 09 Mag 2023
Francesco Grazioso

L'episodio della mosca

(Per un 'esperienza completa: l’articolo è stato scritto ascoltando questa canzone.)

Sono seduto al tavolo della cucina, una mattina finalmente soleggiata di inizio maggio. Di fronte a me le solite poche cose: l’annuale agenda Moleskine blu, metà pagine consumate, metà intonse; tre penne di colori diversi; qualche foglio e il computer. Solo pochi programmi aperti, ma due in particolare influenzano il mio stato d’animo, Spotify, che da minuti accetta passivamente i miei continui “skip” alla ricerca della giusta canzone e Pages che mi guarda dal silenzio di una pagina vuota, completamente bianca. Da minuti e minuti, completamente bianca.

Perché sono distratto da qualsiasi cosa io abbia intorno. 

Ecco qualche esempio.

Sono ipnotizzato dal ticchettio regolare di un orologio della stanza accanto, un rumore che in condizioni normali non potrebbe essere avvertito ma che ora, invece, che tutto dovrebbe portarmi verso una profonda concentrazione, arriva presente più che mai, trasportandomi altrove.

Sono estasiato dai raggi di sole che entrano di taglio dalla finestra e che, con la forza di una primavera cavalcante, illuminano tutta la stanza, dal legno del bancone alle tazzine, dalla pianta lasciata in un angolo allo schermo del mio computer, palesando un pulviscolo fluttuante che presto cadrà senza logica un po’ ovunque.

Sono incuriosito dalle voci della strada, tra risate e litigate di persone libere che nel mio orario lavorativo possono vivere la città, a differenza mia. Io no. A me è chiesto di scrivere un articolo. In linea di massima una cosa semplice e piacevole, certo. Se non per quella brutta necessità di dover trovare un’idea, cosa non da poco per me, iscritto da anni al club “Distrarre&Procrastinare”.

È in questo caos calmo, momento di stabilità totale dove ogni cosa sembra trovare senso solo nell’immobilità, che una mosca, come apparsa dal nulla, si poggia sulla pagina vuota di Pages, riempiendone un angolo per poi percorrerla in tutta la sua verticalità, tranquilla, senza trovare parole a intralciarle il percorso.

La guardo e anche lei, probabilmente, mi guarda. Chissà in che modo, chissà con quanti occhi, chissà con quale timore.

Il gesto istintivo è quello di porgerle un dito, avvicinarlo piano come gesto di pace, sperando di fraternizzare con la nuova inquilina della cucina ma, ovviamente, ottenendo l’effetto opposto.

Schizza via come un missile, direzione finestra ma con traiettoria non regolare, sfiorando mobili e oggetti sparsi qua e là nella stanza.

Arrivata al vetro, incomprensibile per il suo modo di ragionare, tenta di sfondarlo a più riprese per creare un’improvvisata via di fuga. Dopo secondi di lotta si arrende, optando nuovamente per l’immobilità. Mi piace pensare che si stia sfregando le mani escogitando un nuovo piano, qualcosa di geniale e imprevedibile e non per pulirsi da sporcizia indicibile.

Mi avvicino nuovamente con fare amichevole, questa volta senza mani ma con il viso, forse per origliare i suoi pensieri. E nuovamente una fuga, folle e disperata, attraverso la casa. Dalla cucina alla sala, e via lungo il corridoio, sparendo dai radar.

Ho perso la mosca. Non ho più scuse per ingannare il tempo. O meglio perderlo, perché se lo cerchi di ingannare ne esci sconfitto.

E allora eccomi di nuovo al computer davanti alla pagina di Pages tornata completamente bianca.

Mi ritorna in mente (“bella come sei, forse ancor di più…” ecco un’altra distrazione per non farmi concentrare) che in un qualche momento della mia formazione, un professore diede alla classe un consiglio per smarcare la temuta “sindrome della pagina bianca”, ovvero iniziare a scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, anche “aaaaaaaaaaaaaaaa” per affrontare di petto il problema.

E così provo, e digito:

“Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa”.

Quando ecco che sopra questo nonsense che assomiglia ad un grido disperato riappare lei, la mosca. Questa volta incuriosita da quelle lettere tutte uguali.

La fisso, forse ci fissiamo. Si sfrega le mani, me le sfrego anche io. Percorre la pagina e la inseguo con la freccia del mouse, chiedendomi se questo elemento non reale possa essere in grado di spaventarla. Arrivato a qualche millimetro da lei spicca il volo, librando per la cucina, appoggiandosi ritmicamente su tutte le superfici della stanza: il piano cottura, la credenza, il frigorifero, le ante di un mobile.

Decido che può bastare così, devo riuscire ad accontentarmi della sua compagnia senza importunarla: io voglio giocare ma lei mi teme. E poi non voglio essere il responsabile di un’eventuale stroncatura della razza umana nel mondo delle mosche: “Umani 0 stelle su 5. Stupidi, molto stupidi. Uno una volta mi ha inseguito tutta una mattina invece di lavorare”.

No, no. Meglio di no. Non si sa mai. Anche perché vedo una possibile rappresaglia animale molto più imminente di quanto si possa immaginare.

Ancora al computer. Cambiamo tecnica. Digitiamo altro.

“All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy.

All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy.”

Magari evocare i maestri King e Kubrick può aiutare il Dio della creatività a venirmi incontro. Chissà.

Ma io penso solo alla mosca. Ma perché. Così non riesco a stare, a vivere! Figuriamoci lavorare.

Mi alzo, la cerco, la sento, la riperdo, ho fame, non la trovo, passano le ore, la cerco, è caldo, sudo, sta calando il buio, non la trovo, la sento, ti sento! La vedo. Ancora lì. Sul computer. Accanto alla piccola barretta di Pages che lampeggia aspettandosi nuove parole. Ma quali? Mosca dimmele tu. Dimmele!

 Ma non le dice, si sfrega le mani sopra le parole “dull” e “boy”, spavalda.

E allora capisco tutto, capisco che questo insetto dell’ordine dei ditteri non è la distrazione, non è il contesto: è l’argomento. È lì per suggerirmi di cosa parlare, era così semplice!

Una mosca piccola, semplice e dai gusti sicuramente discutibili è il pretesto per parlare delle difficoltà della creatività, di come il cervello ti inganni pur di non mettersi in moto, creando interessi futili per cose che non avresti mai badato.

Perché la mosca è un simbolo, lo è da sempre: un simbolo del male, delle tenebre, di Belzebù aka il Signore delle mosche, dell’impudenza e della sfrontatezza, altro che distrazione. La capitale della russia? Mosca.

È un simbolo, sicuramente, dal 2010, dall’episodio 10 della terza stagione di Breaking Bad, una delle puntate più amate, odiate, discusse e studiate. Un piccolo animaletto in grado di mettere in crisi, non solo la mia creatività, ma anche la produzione di droga del più insospettabile ma temuto produttore di metanfetamine. 

È un simbolo, altroché. Come si dice “mosca in inglese”? Fly. E vola. E come le idee o la creatività in un giorno storto cerca di volare altrove apparentemente senza logica, sbattendo qua e là per poi tornare stanca sulla pagina bianca, controvoglia. Vola ma ogni tanto sta, rimane.

E rimane mentre scrivo questo articolo, continua a stare qui. Esattamente sopra queste parole. 

E sono un po’ combattuto, perché non so se rimanga per controllarmi e constatare che io abbia capito la lezione, che alla fine io e lei siamo uguali. Oppure per ammonirmi, farmi tenere alta la tensione perché il male è sempre pronto ad agire tra le tenebre dell’ispirazione mancata.

Oppure, molto più banalmente, per farmi capire che quello che ho scritto è una merda. E lo adora.

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